Restauro di una mansarda che racconta una storia: intervista al progettista

Ivonne Sthandier nasce in Venezuela, da padre cileno di origine francese e madre venezuelana di origine olandese.

Nei suoi avi si trova quel fantastico melting pot che cotraddistingue il Sud America.
Giovanissima, si trasferisce negli U.S.A. dove successivamente si laurea in architettura alla Syracuse University di New York. Per amore, approda poi in Italia dove decide di conseguire una seconda laurea in architettura alla I.U.A.V. di Venezia.

Quali sono stati i vantaggi di aver ricevuto una formazione internazionale?
L’esperienza universitaria alla Facoltà di Architettura della Syracuse University, N.Y. è stata molto impegnativa. C’era un confronto continuo tra studenti e docenti che provenivano da tutte le parti del mondo e che erano professionisti affermati. C’era molta competizione quindi molto stimolo a migliorarsi.

Rigore, perseveranza, analisi nelle primissime fasi del progetto, proattività: un’esperienza che mi ha insegnato, già da studentessa, a considerare che scienza e arte possono fondersi. Che lavorare su un progetto può impegnare tutta la vita – un progetto non è mai finito – e che lavorare tanto su qualcosa porta a risultati. Risultati che sono la somma di molte esperienze, di perseveranza, di pazienza, di impegno.

L’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (I.U.A.V.) mi ha permesso di diventare pienamente consapevole della storia dell’architettura e di come sia possibile rappresentare l’architettura moderna in chiave storica.

D’altro canto, questa formazione storica-umanistica non permetteva di approfondire la parte più progettuale e tecnologica, creando qualche difficoltà nei primi anni di attività professionale a quegli studenti che non avevamo alle spalle un background di studi come il mio.

Come si riflette la tua “internazionalità” in quello che fai?
La mia storia mi ha portato a creare progetti come fusioni, intersezioni e adiacenze. Ad esempio la libreria CANTILEVER è un’espressione creativa di fusione e incastri: mensole autoportanti, cassetti a scomparsa laddove non ci si aspetta di trovarli, ripiani come griglie divisorie.

Ho trascorso la maggior parte della mia vita in tre diversi continenti imparando cinque lingue oltre a diverse culture e questa ricchezza ha fatto sì che la mia mente sia costantemente impegnata a tradurre e interpretare.

Siccome l’arte e l’architettura passano dall’idea alla parola al disegno, essere abituata all’interpretazione mi ha facilitato tantissimo a comprendere l’essenza delle cose.

Mi ha permesso di avere, nella fase libera progettuale, una grande velocità di creazione e di progettazione. Sono in grado di produrre tantissimi schemi dai quali seleziono quello che considero migliore, quello più riuscito.
Spesso i miei progetti hanno più di un utilizzo o comunque la possibilità di trasformarsi mantenendo la loro funzionalità.

Traspare l’internazionalità in quello che faccio non nel mero accostamento delle cose ma nell’unione delle stesse. Spesso si ragiona nel seguente modo: latino uguale a colore e calore; nordico uguale a struttura funzionale: quindi, progetto una chiave inglese rossa. Io al contrario cerco l’amore e la sensazionale precisione che applicano gli scandinavi nella progettazione del dettaglio e la possibilità di applicare questo metodo in materiali antichi pesanti per cercare di alleggerire il loro peso specifico reale e visivo.

Architettura o design? come sei approdata al design?
MICROARCHITETTURA!!! Non riesco a scegliere perché per me il processo progettuale è identico. Gli schizzi, gli scritti, la ricerca, i plastici di studio. Tra i due, poi, è questione di dimensioni e numero di utenti. Se prendiamo le tematiche tipo contesto, funzione, bellezza, longevità, riuscita…, sono le stesse. Cambia solo la scala e di conseguenza, il grado di complessità.

Più che approdata al design è stata una lunghissima e silenziosa gestazione dall’edilizia al design. Ho disegnato negli anni numerosi mobili, porte, inferriate, finestre, allestimenti per le stesse persone a cui progettavo la casa. Semmai nel design c’è più possibilità di esprimersi creativamente, mentre architettura in Italia oggi significa il 10% di progettazione e il 90% di burocrazia.

L’amore per il disegno mi ha avvicinata sempre più al design. Non volevo perdere il contatto fisico con quello che facevo, delegare i dettagli ad altri per poi perdere il messaggio di quello che stavo progettando.

Bisogna sapere disegnare – carta e matita – non c’è computer o programma che tenga! Il tempo dedicato all’estetica del tratto aiuta a pensare e ad affinare l’idea che si vuole esprimere. L’inimitabilità dello spessore di una linea vuole dire tante cose. Vuole dire Essenza. Per me è fondamentale riconoscermi in quello che creo.

Che cosa ti ispira, che cosa ricerchi?

La meta è essere maestro di sè stessi. Per me è essenziale che chi vede quello che progetto senta il desiderio di utilizzarlo. La mia maggior ispirazione, al di fuori dei viaggi, nasce in casa, nelle cose di uso comune e in tutte le situazioni della vita che si presentano quotidianamente. Man mano che si presentano, penso a come migliorarle, oppure a inventarle se non le ho viste in giro e ne ho bisogno in casa.

Ricerco, come tutti i creativi, l’assenza del tempo – timelessness. Lavoro per sottrazione, e ricorro all’ornamento solo se necessario all’equilibrio della bellezza. Oggi siamo in un momento critico. Quanti tipi di sedie servono al mondo? Si tratta di progettare e produrre per tramandare piuttosto che fare fare fare. Cerco di non subire la tirannia del produrre quantità senza tema.

Come usi la luce naturale nei tuoi lavori?

Nei miei lavori utilizzo la luce naturale in modo molto rispettoso. Non mi piace manipolarla: preferisco assecondarla lasciando che mi sorprenda, che mi offra qualche cosa.

Vedo che spesso gli effetti della luce naturale su quello che progetto, sia in architettura che nel design, mi portano ad aggiungere o togliere qualcosa al progetto. La luce mi aiuta a decidere.

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